I ragazzi della “buca”

marina de stradisE’ una mattina grigia, piovigginosa. Ma non diluvia, ed in fondo al cielo si apre un pò di azzurro.

Arriviamo a piedi allo spazio della Comunità di San Paolo mentre cerco di riparare dalle gocce il ciambellone che io e mamma abbiamo fatto per dividerlo con i ragazzi della “buca”. Eccoci, siamo leggermente in ritardo, ma stavolta mi sento a casa (anche se è solo la seconda volta che prendo parte a questa iniziativa), libera di muovermi e rimboccarmi le maniche ed entro in cucina diretta, senza perder tempo; c’è già qualche volontario e parecchi ragazzi sono all’opera, smuovendo pentoloni e utensili.

Vado a posare la giacca e lo zaino, per evitare che prendano il profumo del peperoncino con cui condiremo il riso, tanto delizioso nei piatti ma meno addosso, quando si appiccica agli abiti. Entriamo nella stanzetta che fa da ripostiglio (la comunità di San Paolo ha fatto un lavoro meraviglioso) ed è messa a disposizione per la preghiera dei ragazzi, ed incrociamo Alam, un ragazzo conosciuto alcune domeniche fa, che subito ci sorride mentre ci abbandoniamo nei suoi occhi grandissimi ed intensi. Alam ha 21 anni, è uno dei ragazzi più belli che abbia conosciuto ed ha un sorriso che gli illumina il volto.

E’ un rifugiato politico e se non ho capito male dai suoi racconti, ha lasciato il paese da circa 13 anni muovendosi un po’ in giro per l’Europa e lavorando in Grecia ed Inghilterra. Alam ci racconta volentieri i posti dove è stato, ma non è sempre facile capire come ci è arrivato e che come ha vissuto. Il mio amico Alam ha l’eta di mio fratello, lo stesso anno di nascita. Mio fratello studia all’università ed ha la sua famiglia attorno, morirei all’idea di saperlo fuggito chissà dove, da solo. Qual è la differenza tra i due? Nessuna. Non si sa quale destino ha deciso che mio fratello può vivere i suoi ventuno anni in un modo così diverso dal modo in cui li sta vivendo Alam. Alam potrebbe avere la vita di mio fratello e mio fratello quella di Alam, sarebbe un attimo invertire le parti e nulla cambierebbe, sono entrambi belli, giovani, sorridenti. Alla fine dei conti, mio fratello è Alam ed Alam è mio fratello.

I ragazzi continuano ad arrivare e mentre chiacchieriamo peliamo le patate ed affettiamo le carote; durante il pomeriggio ci viene insegnato come cuocere il riso alla maniera afghana, creando una specie di pentola pressurizzata e isolata da un filone di impasto di farina, fermata con altri utensili pesanti sul coperchio, per assicurarsi una chiusura ermeticamente impeccabile.

Il ragazzo con cui chiacchiero di più è nuovo e mi fa vedere le foto della sua famiglia stabilitasi a Francoforte, il loro cane, la loro macchina e la loro casa.

Apro la mia torta e comincio a dividerla e mentre uno dei miei amici allunga la mano per prenderne un quadratino ed io gli tiro uno sguardo tra il complice e l’ammonitore, la volontaria con più esperienza mi mette giustamente in chiaro che devo stare più attenta a non fare favoritismi ed assicurarmi che la condivisione sia totale ed equilibrata. Mi dispiace, non mi sono controllata, ma sarò più attenta in futuro.

Le persone che attraversano la cucina ci regalano stralci di lunghe storie, parole in molte diverse lingue, sorrisi con occhi di tanti diversi tagli. Mi impegno a tirare fuori le tre parole che so in Greco, in Arabo, in Francese, per trovare un punto di contatto, anche dove in realtà non arrivo. Arriva una battuta sulle mandorle e l’uva passa di Herat, su un viaggio in Iran fatto con il terrore di essere arrestati, su una lunga esperienza di ingegnere, che oggi non vale più molto in uno sfasciacarrozze. Alam mi chiede cosa voglia dire “capitale”. Lo legge in giro, in questa Roma Capitale che tanto amo, ma che come ogni metropoli nasconde tanta sporcizia, dolore, miseria. E’ una Roma che non ti chiude le porte, perché davvero non lo fa, ma è costretta a lasciarti in un atrio triste, angusto, ai margini della società; è una Roma che non conosco, in cui fatico a credere che una mezza pita passata di soppiatto con un occhiolino sia una piccola soddisfazione.

Mamma, abbracciami, mi viene da piangere, questi ragazzi potrebbero essere tuoi figli, ed hanno fame, anche se molti di loro sorridono e prestano più attenzione a me che al cibo nelle pentole.

Mi chiedono che cosa faccia nella vita, racconto loro che sono una studentessa di Giurisprudenza. Esultano e dicono che sarò un avvocato, o un giudice. Mi sorridono mentre io mi vergogno di pensare che forse per avere il futuro che mi sto costruendo ho rubato loro qualcosa. Ma loro mi sorridono ancora, non mi accusano di nessun furto e la domanda del perché già alla mia età saranno destinati a cercare per tutta la vita lavori di fortuna non appare sul loro volto nemmeno per un secondo.

Parte la musica, un ragazzo appena arrivato si mette a ballare e subito dopo, mentre facciamo le porzioni, mi chiede come mi chiami e mi racconta che fa il mediatore linguistico per alcuni giudici ed avvocati e che domani ripartirà per il nord. Mi chiede se so cucinare e gli rispondo che ci provo, senza essere una campionessa. Ride, il suo volto si apre e decide di darmi fiducia, dicendo che sono senz’altro brava.

Mamma, questi ragazzi non mi conoscono, ma mi danno fiducia e mi trattano come un fiore, non vogliono che mi sporchi le mani e che faccia fatica.

Purtroppo la tristezza entra nella stanza, alla fine. Quando distribuiamo i piatti, le facce belle e sorridenti come quella di Alam e del ragazzo che balla sono poche. La maggior parte sono affamate, tristi, alcune sporche. La maggior parte sono teste basse.

Mamma, vedo uomini che camminano a testa bassa, come dei prigionieri, papà potrebbe essere uno di loro.

Prendono il piatto in fretta, mangiano ancora più in fretta. Saranno un centinaio circa. Domenica scorsa ci siamo fermate a mangiare con loro, stavolta decidiamo volutamente di passare perchè il riso e la carne non avanzano mai. Promettiamo di fermarci la prossima volta.

Mamma, loro hanno fame, noi no. E’ cosi che va il mondo?

E’ sera, andiamo a prendere la metro. Sono stata bene con i ragazzi della “buca” di via Ostiense, siamo stati in allegria per alcune ore, ad essere sinceri io e Giulia abbiamo fatto anche un po’ le discole, perche più che lavorare siamo state prese dai racconti che i ragazzi hanno deciso di offrirci, dai, le peleremo le patate, poi. Non è la mia manovalanza che ho prestato, perché ho passato un pomeriggio tra amici, senza forzature, senza imposizioni, senza carità; ed è questo che ha fatto la differenza nel mio cuore.

Alam mi ha chiesto perché gli uomini italiani lasciano le loro donne, madri dei loro figli. Lui dice che se avesse una moglie non la lascerebbe mai per nulla al mondo. Gli chiedo se è sicuro. Mi risponde “certo, l’ho sposata, sarà mia moglie per sempre”. Alam, 21 anni. Come ti devo rispondere? Non te la so dare una risposta, Alam jan. Io che riempio tutti i buchi con le parole, alle tue non so rispondere.

Mamma, questi uomini amano davvero, anche quando la vita non li ha fatti sentire amati. Ed io? Io sono in grado di amare quando la vita mi rema contro?

Stasera dentro casa mi sentirò un ingrata, per le volte che ho litigato con mio fratello e per quelle in cui sono stata pigra e non ho usato questa mia vita per ridare agli altri quello che un mondo senza occhi ha deciso arbitrariamente di dare a me, che non ho fatto nulla per meritarmi niente più degli altri. Ma nessuno dovrebbe aver bisogno della Mia carità, perché dovrebbe aver diritto solo alla Sua Giustizia.

Mamma, alla fine mi sono scordata di spostare la giacca dalla cucina oggi pomeriggio, adesso odora di cucinato, di peperoncino, di zafferano. Profuma della mia domenica a San Paolo.

Marina De Stradis, studentessa di Giurisprudenza, ho trovato in Romaltruista l’opportunità di conoscere ed interagire concretamente con le problematiche della città

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