«Tonno, carne o formaggio?»

«Tonno, carne o formaggio?»: questo è quello che ho chiesto di continuo alle tante persone che sono venute martedì, una dopo l’altra, alla mensa via Boiardo.  Dopo aver preso un vassoio con una zuppa calda e del pane, ciascun ospite doveva e poteva scegliere come secondo tra una scatoletta di tonno, una simmenthal o delle sottilette. “Tonno, carne o formaggio”, però suona meglio o forse meno peggio.
La confezione di pesce azzurro già pronto, la carne lessa in scatola o le sottili fette di formaggio fuso per loro, per i tanti senza fissa dimora che ogni giorno fanno la fila in una delle tante mese di Roma, può essere l’unica possibilità di mettere in pancia qualcosa di più sostanzioso.
“Oggi a pranzo manchi solo tu!” è  il nome del progetto a cui ho partecipato. Ma io c’ero, e ne ho visti tanti di homeless, di senza tetto, di barboni. Ognuno col suo trolley al seguito, il suo zainetto in spalla o la sua busta di plastica in mano. Ognuno col suo peso dietro. Io come molti altri volontari ero lì, ad accogliere, a dare una mano, a servire, è proprio il caso di dire, “quel che passa il convento”. Ero lì a farmi tante domande, a chiedermi come o perché.
E poi c’è invece chi lascia poco spazio all’immaginazione, chi qualcosa di sé te lo racconta, così, senza tanti fronzoli o giri di parole. Come quell’uomo sulla quarantina, con i capelli sudici, lunghi fino alle spalle, un po’ sdentato e dall’odore acre, con dei calzoncini corti, le calze a rete strappate e i tacchi alti.
«Io bevo tanto», mi dice mentre aspettiamo insieme in strada che la mensa apra.
Quasi faccio uno sguardo da perbenista prima di esclamare: «Un bicchierino ci sta, magari mentre si mangia, ma senza esagerare».
«Io devo bere», mi ribatte lui.
“Ecco un alcolizzato, poverino”, penso, ma non dico nulla, mi limito a guardarlo provando un misto di pena e tenerezza.
Solo quando mi dice: «Io ho bisogno di bere. Per il mio lavoro» capisco tutto.
Non riesco a d aprire bocca, ma lui continua: «Io devo bere per poter lavorare. Io faccio la puttana».
Sto zitta ancora una volta. Non dico nulla. Non ne sono capace.
Faccio volontariato da tanti anni, ma non mi era mai successo che un’esperienza, una persona mi toccasse tanto. Nella sua franchezza, nella sua onestà quell’uomo mi ha disarmata. Ci sono giorni in cui dopo aver distribuito qualche pasto caldo, avuto in cambio sorrisi sinceri e “grazie” sentiti torno a casa con un senso di benessere diffuso, convinta di aver dato un senso profondo alla mia giornata. E poi ci sono giorni, come martedì, in cui, invece, il senso di impotenza mi devasta.
Fare volontariato significa anche questo, fare i conti con la realtà, uscire dal proprio angolo di mondo sereno e protetto. Aprire gli occhi. Ascoltare. Accogliere. Non giudicare. Restare senza parole.

Alessia, 30 anni

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *